L’uso della luce può, da solo, essere una elemento di narrazione che fornisce informazioni su una scena, una storia, un personaggio.
Una scena è composta da molti livelli narrativi: alcuni lampanti e palesi, altri meno.
L’uso della luce rientra tra questi ultimi, come i suoni, la color correction, persino l’angolo di ripresa e l’obiettivo utilizzato.
Sono elementi che non cogliamo subito razionalmente, ma ci colpiscono nel profondo in modo che, se non approfondiamo queste sensazioni, non riusciamo nemmeno a spiegare, e di cui non siamo consapevoli.
Qui la tecnica diventa arte: capace non solo di raggiungere un risultato utile e funzionale, ma estetico e narrativo.
E’ sufficiente spostare la luce, cambiare tonalità di colore, giocare con luci e ombre, per raccontare storie del tutto diverse tra loro.
Un’esperimento interessante, e semplice, si può vedere in questo video.
Ogni frame, ogni minima variazione di luce, trasforma il volto, l’espressione, il contenuto della scena, anche di un semplice ritratto.
Dalla Tecnica all’Estetica: Uso della Luce nella Storia
Quando una forma d’arte nasce, o è nata nel corso della storia, ha richiesto un momento iniziale di ipertrofia tecnica. Occorre infatti padroneggiare la tecnica, prima di arrivare all’espressione artistica vera e propria. Questo processo avviene nello studio personale e individuale di ognuno, così come nei grandi movimenti artistici.
Possiamo immaginare i fratelli Lumière o Edison interessati più alla conoscenza del mezzo tecnico appena inventato e al suo perfezionamento, che al raggiungimento della perfezione estetica dell’immagine. Allo stesso modo i primi veri registi ad aver utilizzato la loro invenzione, Melies e Porter, subivano i limiti della tecnica.
Non che i limiti fossero vincolanti, anzi. Solo i più audaci si dedicavano al cinema, e proprio grazie a questi limiti hanno dato il via a una ricerca tecnica e artistica che ha permesso al cinema di nascere. Un esempio è l’espressionismo cinematografico tedesco degli anni 20, in cui è possibile ammirare soluzioni innovative, per quel tempo, come la doppia esposizione.
Negli anni 30, ad esempio, il cameraman faceva anche da direttore della fotografia. Era lui a suggerire al regista cosa si poteva realizzare, e cosa no, ridimensionando sogni di gloria e velleità artistiche. Il primo a essersi specializzato esclusivamente nella ripresa, fu Billy Bitzer che dal 1908 iniziò a collaborare con Griffith.
Solo successivamente il ruolo del cameraman si è distinto da quello del direttore della fotografia.
Oggi possiamo leggere il grande Mario Tosi che scrive:
“La cinematografia è molto più del semplice riprodurre immagini piacevoli”.
Vediamo alcuni esempi che confermano questo ultimo caso, suggerito da Mario Tosi, in cui non solo vi è una sublime perfezione tecnica ed estetica, ma anche un messaggio più profondo comunicato grazie all’uso della luce.
Ci sono molti articoli che affrontano l’uso della luce da un punto di vista puramente tecnico e teorico, di cui vi suggeriamo questo e questo.

Uso della Luce: esempi
Ci sono ovviamente molti registi e direttori della fotografia che hanno portato l’uso della luce nel cinema alla sua massima espressione, come Orson Welles, Hitchcock, fino ad arrivare a Robert Richardson o Matthew Libatique.
Questa raccolta di esempi non vuole osannare un determinato artista, a discapito di altri, ma fornire spunti e strumenti di analisi.
Mad Men: finché luce non vi separi
!SPOILER ALERT!
Per chi non conosce Mad Men, e non pensa di vederlo, sappia che è una delle serie televisive più importanti della storia.
Questa fama ha molte buone ragione: lo spessore dei personaggi, la raffinatezza tecnica degli attori, la sceneggiatura, la trama, la scenografia, i costumi, e in sintesi tutto il resto.
Troviamo dei momenti di alta cinematografia, che non hanno nulla a che vedere con le serie Netflix a cui, purtroppo, siamo ormai abituati.
Tra questi, vi è un momento degno di nota, per quanto riguarda l’uso della luce.
RIPETO: !SPOILER ALERT!
Alla fine della quinta stagione, la coppia che si è venuta a creare con il protagonista, e una sua fiamma, subisce un brusco colpo: lei entra nel mondo del cinema, della televisione, lui invece continua il suo lavoro di genio della pubblicità in un altra città.
Non ci viene detto questo in nessun modo, ma lo capiamo ugualmente grazie a questa scena.

Lei nella luce della ribalta, letteralmente, lui in penombra, come un’entità costretta ad osservare, subire e accettare.
Le loro strade sono palesemente separate e segnate. Finché lui, nell’indifferenza di tutti, va via continuando a scivolare nell’ombra. Non vediamo nemmeno più il suo volto.
Dopo cinque stagione in cui tutti i riflettori, reali o immaginari, sono stati puntati su di lui, ora si spostano. Inizia da qui il suo declino, e un percorso che lo porterà a una rinascita.

L’infanzia di Ivan: il buio come nascondiglio
Uno dei registi che ha spinto più di tutti la tecnica ai suoi limiti, piegata del tutto alla poetica dell’immagine e del sonoro, è Tarkovsky.
La luce, e l’ombra, dei suoi film è sempre netta, atroce, cruda e spietata. Non ha penombra o zone di passaggio.
Ne “L’Infanzia di Ivan” si può ammirare al massimo questa deriva stilistica, perché la crudeltà della luce qui racconta come un sottotesto la crudeltà della vita.
Ivan è un ragazzo, rimasto orfano dopo l’uccisione di sua madre da parte dei tedeschi, durante la seconda guerra mondiale. Viene accudito e cresciuto da due soldati sovietivi, e in poco tempo diviene un elemento che in prima linea fronteggia i nemici.
Ivan è il volto di una patria e un mondo rimasti senza storia, senza illusioni e senza consolazioni. A cui la guerra ha portato via tutto, e a cui la guerra è tutto ciò che rimane.
Nel corso del film si intreccia la ricerca personale, di un’identità, il bisogno di vendetta, a ricordi della sua vita passata.
In questa scena, più che in altre, ci viene ricordato che egli, dopotutto, è un bambino: costretto a combattere, sopravvivere, ma che non può fronteggiare se stesso e il carico emotivo di ciò che ha subito.
Cerca un nemico, lancia minacce fioche e senza fiato, è in prima linea nella scena con una zona di ombra che sembra tagliargli la faccia tanto è netta. Alla fine, come se volesse cercare un nascondiglio per sfuggire a tutto questo, si rifugia nell’ombra, la stessa creata da quella luce crudele.
Qui è questo scambio di luce e ombra, e nient’altro, a suggerire queste suggestioni, in un mirabile utilizzo della recitazione e della scena.
The Lighthouse: tutto dalla luce
Robert Eggers nel 2019 crea questo capolavoro con delle scelte stilistiche importanti come il formato 4:3, e il bianco e nero.
The Lighthouse ha un unico protagonista: il faro. La sua luce porta gli altri protagonisti alla pazzia, li domina, li ossessiona.

Nella quasi totalità del film, escluse solo le scene esterne, i personaggi sono illuminati da una sola fonte di luce, creando anche qui delle ombre nette e decise. I personaggi diventano come dei fantasmi, che vivono e prendono forma solo grazie a essa.
In questa opera impeccabile, prendiamo un singolo fotogramma in grado di farci comprendere come la luce ha permesso di enfatizzare il concetto di base.

In questa scena vediamo uno dei due protagonisti in penombra, e l’altro totalmente oscurato rispetto allo spettatore. Questo avviene in pochi momenti del film, e in ognuno di essi il personaggio che è oscurato parla di sé.
E’ questa ombra dunque a renderli umani, come se cancellando per un momento la luce, la sua ossessione, la sua crudeltà sui volti, potessero finalmente parlare da esseri umani. Riconoscere la propria storia, creare un dialogo personale.
Ecco quindi anche qui l’uso della luce e la tecnica donata a una finalità più alta e sottile.
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