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The social dilemma: tutto quello che non sapevamo

Il docufilm di Netflix “The social dilemma” già prima della sua uscita ha fatto molto rumore. Tante verità che fanno scandalo o realtà che già in molti conoscevano? Parliamo dei limiti e dei punti di forza di questo docufilm.

The social dilemma ci pone davanti questioni etiche che si contrappongono ai servizi di analisi e gestione dei dati da parte delle piattaforme di social network. Ma quante di queste informazioni sono davvero shockanti per gli utenti?

Manager e operatori fuori dalle grandi società di Internet si raccontano

I social ci mostrano ciò che a noi è più vicino, per opinione o gradimento. Sulle piattaforme siamo accostati a chi la pensa in maniera simile e questo ci fa sentire a nostro agio e accresce il piacere di permanere sulla piattaforma. Questo è uno dei concetti chiave raccontato nel docufilm di Netflix come una vera e propria rivelazione, sconosciuta ai più. A “svelare” questo sono alcune persone fuoriuscite dalle grandi società di internet, che hanno deciso di raccontare cosa si cela dietro al misterioso universo dei social network.

Ma se il documentario è nuovo, le cose che racconta erano già note.

The Social Dilemma ci (ri)sbatte in faccia i vari meccanismi con brutalità e una certa teatralità, partendo dall’assunto che «se il servizio è gratis, il prodotto sei tu».

Alla base di questo ragionamento ci si domanda anche in che modo queste dinamiche stiano cambiando e condizionando i nostri comportamenti. Niente che non sapessimo o intuissimo già.

La novità è che il regista Jeff Orlowski ce lo fa spiegare da alcuni fra i giovani signori, e da poche giovani signore, che hanno progettato Facebook, Pinterest, Instagram e altre piattaforme. E si sono pentiti.

«Eravamo partiti con altre intenzioni, poi la situazione ci è sfuggita di mano».

Il lato inquietante dei social network svelato da The social dilemma

Ogni giorno, a ogni nostra singola azione cediamo i nostri dati alle piattaforme in cambio di divertissement in una specie di patto sociale. E, se nel patto rousseauiano, cediamo libertà in cambio di sicurezza, su internet cediamo parte della nostra privacy per guadagnarne in socialità. Fin qui, ci eravamo arrivati in molti fino ad oggi.

La questione sollevata dal docufilm è che non cediamo solo dati, diventiamo vendibili. Quando manca il prodotto, il prodotto sei tu. In modo piuttosto intuibile, ci vendono cose e polarizzano consensi. D’altronde le piattaforme social sono a tutti gli effetti delle aziende che pensano al profitto. Dunque, i nostri dati interessano ai fini commerciali alle aziende.

Gli aspetti più inquietanti riguardano invece la reazione a cascata che nel tempo si ripercuote sugli individui nella vita reale. Le conseguenze che preoccupano di più sono:

  • l’emergere di malessere,
  • le gogne mediatiche,
  • i suicidi per la mancata accettazione,
  • la dipendenza da smartphone,
  • la rincorsa verso il riconoscimento sociale.

Fenomeni nuovi in cui ci siamo ritrovati quasi senza accorgercene: Facebook, nel 2008, era uno strumento utile per scambiare informazioni sui corsi dell’Università. Oggi, invece, si è trasformato plasmando la società, il mondo del lavoro, il modo di relazionarsi tra le persone.

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Tristan Harris e l’etica della persuasione

Tristan Harris è il più incisivo: a Stanford ha studiato etica della persuasione, in Google ha co-inventato la posta elettronica Gmail e se n’è andato dopo aver tentato senza successo di convincere i suoi colleghi e i suoi capi ad assumersi la responsabilità di quello che stavano facendo: spingere l’umanità a diventare schiava di uno schermo portatile.

«Se ti guardi intorno, hai la sensazione che il mondo stia impazzendo. Viene da chiedersi: è normale? O siamo tutti vittime di un incantesimo?».

Orlowski ha messo Harris su una sedia, ha lasciato che argomentasse le sue preoccupazioni, inframmezzando la sua e le altre voci con una mini fiction girata in una casa americana allo scopo di evidenziare gli effetti dannosi dei social su due ragazzini. Lei, vittima del costante confronto con le coetanee e della ricerca del consenso su Instagram. Il fratello che si perde su YouTube nel turbine del sensazionalismo e delle fake news, che cavalcano la predilezione dell’algoritmo per i contenuti divisivi e polarizzanti.

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Un docufilm prodotto da una piattaforma social che fa le stesse identiche azioni criticate

The Social Dilemma si presenta, di fatto, come un documentario divulgativo, prodotto e diffuso da Netflix, una piattaforma che – al pari delle altre piattaforme di cui racconta – lotta per ottenere la nostra attenzione proponendo contenuti a noi affini ed è inevitabile che amplifichi alcuni concetti e semplifichi altri passaggi. Una mossa incoerente che con toni sensazionalistici vuole aprire gli occhi ai suoi spettatori.

Infatti, vengono citati i dati sull’aumento degli atti di autolesionismo e dei suicidi fra i giovanissimi americani dal 2009, quando i social sono sbarcati sui telefonini. Una deduzione legittima ma incompleta: andrebbero considerate molte altre cause di quel periodo potenzialmente scatenanti, come la disoccupazione dei genitori e l’incertezza economica. Così populismo, radicalizzazione e tensioni sociali: fenomeni che non si possono attribuire solamente alla selezione distorta dei contenuti fatta dagli algoritmi di una manciata di piattaforme.

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